Gervinho, ovvero Gervais Yao Kouassi, è ivoriano, nel pieno della carriera a 26 anni, ovvero l’età ideale per abbinamento tra maturità calcistica ed espressione fisica nel calcio moderno.

Giocava a pallone da far impazzire tutti, in Costa d’Avorio, dove il calcio è ancora una mezza religione. Per questo diventa per tutti Gervinho, alla brasiliana, anche se il tocco non è magari proprio bailado. Ci sono però velocità d’esecuzione e cambi di direzione che negli spazi anche medi fanno davvero male. La maggiore età, il Belgio, la Francia, l’Inghilterra e quindi poi l’Italia, dove ritrova il Rudi Garcia con cui stupì parigini e lionesi conquistando un titolo da outsider con la maglia del Lille. Alti e bassi, addirittura oggetto quasi di scherno nell’ultimo periodo di Arsenal, dove comunque un tecnico dello spessore di Wenger ci ha puntato fino quasi all’ultimo accettando anche attacchi (sempre british, per carità) di stampa e tifoseria.

Oggi Gervinho è la nuova stella della Roma. Ha conquistato una città, i compagni, la grande stampa e tantissimi punti. Fin da subito, ovvero da quelle dieci vittorie consecutive in campionato che hanno permesso di rigenerare da dentro l’intero clan giallorosso che veniva dalle lunghe depressioni del dopo-Sensi, del serafico Luis (Enrique) e dell’ex profeta Zdenek (Zeman). Il calcio, questo è risaputo, non si gioca da soli. Si vince insieme, si perde insieme. Ma qualcuno vince più di altri e qualcuno perde più di altri: la sentenza la danno le partite stesse, e poi al massimo sta all’allenatore gestire le conseguenze. Perché comunque nel grande impatto con il campionato di Serie A di Gervinho, tra i più atipici che si ricordino (né ala, né attaccante, piuttosto anarchico all’apparenza, un anno goleador e l’anno dopo “pippero”. E meno male che oggi è tornato in voga il concetto di attaccante esterno, fin che dura…), grande merito è dell’allenatore, uno dei pochi stranieri a insegnare qualcosa, magari non moltissimo ma qualcosa, ai migliori colleghi italiani: prima di Garcia e senza andare nel football della preistoria, successe a Liedholm, in parte al primo (anzi il secondo, quello di Foggia principalmente) Zeman ed Eriksson. José Mourihno fa scuola a sé, che lo si ami o lo odi. Poi però Gervinho ci sta mettendo del suo, smentendo le feroci critiche estive che cadevano fino sul fattore prezzo (8 milioni di euro ai Gunners, che rivalutati oggi…). C’era anche però una riserva tecnica, diffusa, dovuta non tanto alle caratteristiche del calciatore quanto piuttosto al fatto che fosse piuttosto “solista” e allo stesso tempo anche sublime divoratore di palle gol. Cosa che al momento non è: ne realizza e ne produce. Chi, tra cui il sottoscritto, pensava dopo le prime apparizioni al fulmicotone potesse arrivare la cosiddetta Sindrome di Krasic (perché in Italia, una volta prese le misure sono guai grossi) dovuta a un modo di affrontare il campo palla al piede piuttosto ripetitivo è stato ulteriormente smentito: non un campionissimo, ma sufficientemente intelligente a seguire le indicazioni tecniche e sfruttare anche le infilate senza palla. Quelle che finora, a conti fatti, sono risultate l’arma letale contro i tatticismi nostrani. Fino a prova contraria.

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