Se non siete mai stati in Islanda, farete fatica a comprendere come una nazionale così piccola sia riuscita a diventare competitiva con avversari che sono entrati nella storia del calcio. Ma se avete avuto modo di visitare questo Paese, allora lo stupore sarà ancora più grande
L’Islanda del calcio è sotto gli occhi di tutti: per la prima volta nella storia, la nazionale riesce a qualificarsi per una fase finale di una competizione internazionale, Euro 2016, dopo aver sfiorato il miracolo nel recente passato. Agli europei ha poi centrato uno storico passaggio della fase a gironi ed un’incredibile 2-1 che ha eliminato l’Inghilterra di Roy Hodgson.
Il risultato ha dell’incredibile perché la popolazione totale conta appena 320.000 abitanti e una densità di appena 3 abitanti per chilometro quadrato, ma non solo: il clima non è quasi mai ideale per giocare a calcio, tant’è che la stagione calcistica è brevissima: da maggio a settembre. La Natura influenza e scandisce tutti gli aspetti della vita e, a maggior ragione, lo fa con il calcio.
Ma quali sono stati i fattori chiave che hanno portato l’Islanda a essere il movimento calcistico che è ora?
1. Passione per il calcio. Nulla potrebbe essere possibile senza questa condizione fondamentale. I tesserati sono 20.000, tra uomini e donne. In poche parole, 1 islandese su 16 gioca a calcio a livello agonistico. Con un simile rapporto l’Italia avrebbe oltre 3.700.000 tesserati, mentre nel 2012-2013 si è attestata a poco meno di 1.100.000 iscritti (fonte Report Calcio 2014, FIGC).
2. Realizzazione di campi sintetici indoor. A inizio millennio si è registrata una rivoluzione con la creazione di diverse strutture indoor che spesso replicano in scala 1:1 le dimensioni di un campo di calcio regolamentare. Fondamentale, perché da ottobre ad aprile non si gioca all’aperto.
3. Enfasi sulla preparazione degli allenatori. Tutti gli allenatori, a tutti i livelli, ricevono un compenso. Non ci sono volontari. E chiunque ha una formazione accademica, con più di 1 mister su 3 con licenza UEFA B o superiore (fonte Football Association of Iceland, 2007). Poche federazioni fanno così tanto anche per i giovani giocatori.
4. Scouting dei club stranieri. Il campionato locale è prettamente dilettantistico, sono pochi i giocatori che possono permettersi di concentrarsi al 100% sulla carriera sportiva. In questo contesto, un grosso contributo è dato dalle grandi realtà internazionali, che monitorano i giovani con maggior potenziale e li inseriscono nei propri settori giovanili. E’ qui che possono finalmente misurarsi con un più alto livello di competizione e, quindi, migliorarsi e maturare come calciatori professionisti.
5. Extra motivazione nel rappresentare il proprio Paese. Tutti tengono a fare quanto meglio possibile per la propria nazionale ma, secondo le parole del C.T. Lars Lagerback, gli islandesi hanno qualcosa in più: “Penso che i giocatori dimostrino un forte orgoglio per la propria nazionale, sono motivati a tornare a casa e giocare per il proprio Paese, è davvero un’ottima attitudine”.
6. Tirare fuori il meglio da quello che si ha. In Islanda è difficile fare recruiting di giovani talenti da altre parti del Paese, i coach devono lavorare sul materiale umano a loro disposizione e far evolvere gli atleti sia da un punto di vista tecnico che tattico, oltre che umano.
L’Islanda ha percorso una lunga strada per arrivare al successo: una storia fatta di pionieri e personaggi leggendari come Albert Gudmundsson, il primo calciatore professionista islandese, che militò nel Milan del ’48-’49 (14 presenze, 2 gol) dopo aver varcato i confini nazionali e giocato tra le file di Rangers e Arsenal. E che trovò addirittura il tempo per diventare Ministro delle Finanze negli anni Ottanta!
Ma anche di piccoli record, come il primo match internazionale in cui giocarono sia padre che figlio (l’Eidur Gudjohnsen di Chelsea e Barcellona, che sostituì il padre Arnor in una partita del 1996).
Una storia che ha portato gli islandesi dal 128° posto nel ranking FIFA del 1973 al 23° del 3 settembre 2015.
Un circolo virtuoso che ha l’obiettivo di autoalimentarsi e confermarsi anche in futuro, perché le municipalità locali hanno capito che realizzare opere e programmi sportivi come questo aiuta a contrastare problematiche sociali molto diffuse come l’alcolismo e il tabagismo. E’ un modello calcistico che nazioni ben più grandi sia a livello di popolazione che di tesserati dovrebbero forse copiare con umiltà.